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La drammatica lettera pubblicata su Facebook dal sindaco di Volvera

VOLVERA – Il sindaco di Volvera Ivan Marusich ha pubblicato ieri su Facebook una drammatica lettera che gli ha inviato un’infermiera residente in paese e che lavora all’ospedale San Luigi di Orbassano.

La pubblichiamo integralmente qui sotto.

LA TESTIMONIANZA DELL’INFERMIERA

Buonasera sig. Sindaco,

lavoro in ospedale, le scrivo perché, da cittadina volverese vorrei descriverle una giornata tipo.

Una come tante, in questo periodo. Ma non vorrei descriverle quello che stanno passando i media: numeri, statistiche, decreti e divieti.

Vorrei farlo visto dal lato del paziente Covid positivo e degli operatori. Il Covid è molto più che un virus subdolo.

Siamo un paese che sa solo lamentarsi per qualsiasi cosa, mai contenti di nulla.

Sembra che la quarantena sia un castigo anziché una protezione per ognuno di noi.

Se lo riterrà opportuno, potrà condividerlo lei, per sensibilizzare.

Che bello essere chiamati angeli, ma chissà se poi lo siamo davvero.

È un sabato mattina di una settimana di allerta Covid-19. Finalmente un giorno di riposo dopo tanto lavoro.

Finalmente puoi dedicarti alla famiglia. Per te la quarantena non esiste, non esiste il divieto ad uscire e non è mai esistito.

Tu devi lavorare, sei preziosa dicono. E invece no, niente riposo. Arriva la chiamata.

Si deve andare. C’è bisogno di coprire turni. Il lamento è d’obbligo, non vorresti, ma si fa.

Mentre ti prepari, rifletti che marzo non è stato affatto clemente: turni di 12 ore, ferie annullate, riposi ma cosa sono i riposi?

Arrivi in ospedale, qualche figura nei corridoi, ma ancora troppa gente in giro.

Arrivi al reparto critico, quello dove sono ricoverati i pazienti positivi. Tutto blindato, suoni.

Ti apre la collega che è li da ieri sera. Stremata, viso segnato dalla mascherina e gli occhiali, prendi consegna e la congedi.

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Deve riposare. Suona un campanello.

Ti sporgi alla camera interessata, chiedi il motivo della chiamata, rassicuri che presto entrerai, e vai a vestirti.

La vestizione è lunga, ci si deve bardare molto bene e non si possono commettere errori di trascuratezza.

Entri dalla paziente, la conosci e la saluti. Ha un casco sulla testa, si chiama C-pap. Serve per respirare meglio, non ha molte speranze e il monitor al quale è collegata ne dà conferma.

Ma la paziente è cosciente, lucida e orientata nel tempo e nello spazio, ma soprattutto sa che sta per morire.

Lo sa, lo percepisce e lo sente. Parli un po’ con lei.

Non mangia da giorni. Questa mattina chiede la colazione.

Ha un diabete non controllato e vuole due fette biscottate con la marmellata.

Sarà certo il diabete il suo peggior nemico ora? E riferisci alla collega di passarteli.

Quello sguardo implorante ti uccide. Distogli ogni tanto gli occhi da lei per non morire dentro…

Mentre le sistemi i cavi dei parametri vitali, lei ti prende la mano…”Amore, sei mamma?”. “Si, di due ragazzi”.

“Allora puoi capire cosa sto provando?”.

“Posso provare, ma se vuoi, puoi descrivermelo… ti ascolto”.

“Ho quattro figli e sono sempre stati tanto mammoni.

Un rapporto bellissimo, anche perché gli ho fatto da madre e da padre, visto che sono rimasta vedova da giovane.

Non ho paura di morire, non vorrei solo soffrire.

Ma un giorno, uno dei miei figli è venuto a trovarmi e non lo hanno più fatto entrare.. è stato obbligato, non una scelta.

Non ho potuto vedere più i nipoti, le nuore nessuno. Io qui, loro a casa. Non ho potuto dir loro quanto bene gli voglio”.