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Morto Wilbur Smith.”Se n’è andato in modo inaspettato”

L’annuncio sul suo sito: “Se n’è andato in modo inaspettato dopo una mattinata di lettura e scrittura”

Se n’è andato come un personaggio dei suoi romanzi: di colpo, inaspettatamente, dopo una giornata passata a leggere, scrivere e godere della compagnia della quarta moglie, la tagika Niso, colei a cui aveva appena dedicato l’ultimo libro, appena uscito in Italia.

“Hai guarito il mio cuore e mi hai donato la forza di un esercito”, recita il messaggio all’amata consorte sulle prime pagine del volume, “grazie per avermi spinto a diventare il miglior scrittore possibile”.

Resteranno forse queste le ultime parole di Wilbur Smith, il re dell’avventura, scomparso a 88 anni in Sud Africa, nel continente dove era nato, dove aveva quasi sempre vissuto e in cui aveva messo in scena le epiche storie che lo hanno reso, se non il “miglior scrittore possibile”, certamente uno degli autori più popolari e più ricchi del mondo.

Quaranta titoli, suddivisi tra la saga sull’antico Egitto, di cui Il nuovo regno costituisce l’ultimo capitolo, preceduto da Il dio del fiume, Il settimo papiro e svariati altri, e quelle su dinastie di famiglie di bianchi come lui, cresciuto nella Rhodesia (oggi Zambia) dell’apartheid, regime che condannò aspramente, poi passate attraverso la fine del colonialismo e l’inizio di una nuova era all’insegna dell’eguaglianza razziale, come il ciclo dei Courtney e dei Ballantyne, iniziato con Il destino del leone, il fortunato esordio che lo fece scoprire e ne fece un campione di best-seller.

Centoventi milioni di copie vendute, un sesto delle quali in Italia, uno dei paesi dove aveva più lettori.

Il vero avventuriero era suo padre, un operaio dell’industria metallurgica che diventò padrone della fabbrica in cui lavorava, un ex-pugile “dalle braccia grosse così”, un cacciatore che in Rhodesia comprò una fattoria e si ritirò lì a coltivare la terra.

Ma anche un uomo bianco con mentalità vecchio stampo, un colonialista: “Gli diedi retta finché ho compiuto vent’anni e poi ho cominciato a pensare con la mia testa”, lo ricordava Wilbur. “Non volevo perpetuare l’ingiustizia, così lasciai la Rhodesia e cercai di trovare da solo la mia strada”.

Da ragazzo vuole fare il giornalista, il padre lo costringe a studiare da commercialista, ma a quel punto anche Wilbur ha la sua razione di avventure: “Ho ucciso il mio primo leone a 12 anni, per autodifesa, sono stato quasi ammazzato da un bufalo, ho visto uomini uccisi dagli elefanti e ho nuotato in mezzo agli squali”, come ha raccontato a Claudia Morgoglione in una intervista a Repubblica appena qualche mese fa.

Da giovane lavora in una miniera in Sud Africa e poi si imbarca su una baleniera, anche se ne discende dopo un mese, avendo compreso che non è il suo mestiere.

Per un po’ lavora per l’ufficio delle imposte sudafricano. Poi torna alla passione giovanile, scrivere: non per i giornali, però. Storie di fantasie, ispirate dall’Africa e dai suoi miti.

Che si tratti del mago e scienziato Taita, protagonista della saga egiziana, o dei capostipiti dei Courtney e dei Ballantyne, i personaggi dei suoi romanzi sono il suo alter ego, come ammette per primo: gli eroi romantici che avrebbe voluto impersonare nella realtà.